martedì 29 marzo 2011

Giudice Rosario Angelo Livatino




E' troppo importante ricordare la memoria di quest'uomo che sacrificò la sua vita per la Giustizia e per lo Stato Italiano rimanendo fedele ai suoi principi in un periodo storico in cui lo stillicidio omicida di magistrati e uomini delle forze dell’ordine generava paura omertà e connivenze.  Le sue inchieste avevano colpito la Stidda, un’organizzazione mafiosa diffusa nella Sicilia orientale che fino ad allora aveva agito indisturbata grazie a complicità e coperture; la cosiddetta tangentopoli siciliana, che aveva proliferato grazie ad un sistema di collusioni tra mafia, politica ed economia. La testimonianza del giudice Rosario Livatino sia da esempio alla politica, alla società civile e in particolare alle nuove generazioni. A dispetto della sua giovane età Livatino interpretò il ruolo di giudice e di cittadino con grande senso del dovere e responsabilità ; egli credeva profondamente nei valori della giustizia e della legalità. Il ‘giudice ragazzino’, come è meglio conosciuto grazie allo sprezzo con cui gli si rivolse Cossiga quando il giudice sviscerò i legami tra mafia e massoneria –sottolineano - rappresentando  appieno i valori dell’indipendenza della magistratura, in un momento in cui i vertici governativi puntavano a controllare i giudici per snaturarne la funzione. E oggi come allora  , i magistrati sono perseguitati dai politici per scopi personali , per questo bisogna  sempre ricordarsi   di magistrati valorosi , coraggiosi  e onesti come Livatino  Borsellino e Falcone . Rosario Livatino era un siciliano  educato e cresciuto nella nostra terra. E questo a conferma che dal cuore della Sicilia provengono esempi virtuosi per le generazioni future, schierati fra le file del bene e pronti anche all’estremo sacrificio. Con i suoi lineamenti dolci, il sorriso appena accennato, i capelli neri pettinati con la riga di lato con gli occhi scuri e profondi ; lo sguardo fermo e penetrante. Un fisico minuto da adolescente; semplice e austero , sobrio persino nel vestire: giacca e cravatta anche in piena estate, che non è facile da sopportare col caldo isolano. Un’infanzia serena vissuta nella semplicità e nel decoro di una famiglia borghese, appartata e schiva, che lo seguiva con attenzione e tenero affetto. Rosario era  nato a Canicattì il 3 ottobre 1952, dal papà Vincenzo, laureato in legge e pensionato dell'esattoria comunale, e dalla mamma Rosalia Corbo.
Negli anni del liceo Livatino era  il ragazzo che scendeva di rado a fare ricreazione per restare in classe ad aiutare qualche compagno in difficoltà. Aperto ai bisogni degli altri, ma riservato su di sé, studiava intensamente, inoltre s’impegna nell’Azione Cattolica. Rosario conseguì la laurea in Giurisprudenza all'Università di Palermo il 9 luglio 1975 a 22 anni col massimo dei voti e la lode.  Il conseguimento della laurea, alla prima sessione utile, era solo la momentanea conclusione di una brillantissima carriera scolastica. Giovanissimo entra nel mondo del lavoro vincendo il concorso per vicedirettore in prova presso la sede dell'Ufficio del Registro di Agrigento .
Per un liceale affascinato da Dio arriva infine il giorno fatidico della scelta: che cosa farà da grande? E non ha alcun dubbio: farà il giudice.
Nel ‘78, a ventisei anni, può coronare il suo sogno. Sulla propria agenda quel giorno scrive con la penna rossa, in bella evidenza: “Ho prestato giuramento; da oggi sono in Magistratura”. E poi, a matita, vi aggiunge: “Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”.
Livatino avverte, infatti , in maniera molto forte il problema della giustizia e lo assume ben presto come una vera missione. Il dramma del giudicare un altro essere umano, di dover decidere della sua sorte, non è cosa da poco per chi senta profondo in sé il tarlo della coscienza unito a un sincero senso di carità.
Nel frattempo però partecipa con successo al concorso in magistratura e superatolo lavora a Caltanissetta quale uditore giudiziario passando poi al Tribunale di Agrigento, dove per oltre un decennio, dal  '79 al '89, come Sostituto Procuratore della Repubblica, si occupa delle più delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche  di quella che poi negli anni '90 sarebbe scoppiata come la "Tangentopoli siciliana". 
Rosario non volle mai far parte di club o associazioni di qualsiasi genere. Rosario Livatino fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre '90 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre - senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto - si recava in Tribunale. Per la sua morte sono stati individuati, grazie al supertestimone Pietro Ivano Nava, i componenti del commando omicida e i mandanti che sono stati tutti condannati, in tre diversi processi nei vari gradi di giudizio, all'ergastolo con pene ridotte per i "collaboratori".  Rimane ancora oscuro il contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice ininfluenzabile e corretto.

 Prima di lui, il 25 settembre 1988, stessa sorte toccò al presidente di Corte d'Assise d'Appello Antonino Saetta e al figlio Stefano trucidati in un agguato mafioso, senza scorta e con la sua auto, faceva rientro a Palermo dove abitava e lavorava. Per questo duplice omicidio dopo quasi dieci anni sono stati individuati e condannati con un unico processo i presunti mandanti ed esecutori superstiti. Rosario Livatino era  un giovane giudice, un cristiano praticante . Non un santo a tutti i costi, non un superuomo, ma un uomo come mille altri. Innamorato della vita, della giustizia, della verità. Eroe per caso nella terra  baciata dal sole ma anche della  lupara e del tritolo mafioso. Uno dei cosiddetti "giudici ragazzini" chiamati a fronteggiare "Cosa nostra". L’Italia lo conobbe dalle pagine dei giornali soltanto all’indomani della sua morte dopo il barbaro assassinio, la sua figura ha cominciato a distinguersi nell’immaginario di chi vive nell’Italia di oggi ma ne sogna una diversa. Da Canicattì tutte le mattine raggiungeva la sede del Tribunale, ad Agrigento, una manciata di chilometri percorsi in automobile. Prima di entrare in ufficio, la visita puntuale alla chiesa di S. Giuseppe, vicino al Palazzo di Giustizia, dove si fermava a pregare. Lo ricorda bene mons. Giuseppe Di Marco, vicario diocesano, allora parroco, che molte volte si era domandato chi fosse quel giovane così raccolto, concentrato nelle sue preghiere. "Non sapevo chi fosse, solo dopo la tragedia, quando ho visto la sua foto sul giornale, ho capito chi era … Rimaneva a pregare  per un po’  e poi se ne andava in silenzio. ". I casi più difficili del suo lavoro di giudice, Rosario li risolveva lì, ai piedi dell’altare, la mattina prima di entrare in Tribunale. LìSarò invocava l’assistenza dello Spirito Santo per poter giudicare con retto giudizio, per scegliere ciò che era meglio da farsi "e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare…", aveva scritto. La  madre Rosalia testimonia: "In casa ha sempre respirato aria di convinta religiosità, ma soprattutto su di lui hanno influito idocenti di religione, sacerdoti di altissimo livello dottrinale e spirituale. Per la sua formazione personale sono stati importantissimi. Rosario, inoltre, credeva tanto nella forza della preghiera: la sua giornata iniziava e si concludeva con la lode al Signore. Alla Procura di Agrigento il lavoro era sempre tanto e lui non si tirava mai indietro. Restava in ufficio anche quando non c’era più nessuno. Scrupoloso, il giorno di ferragosto non esitò una volta a presentarsi in Procura solo per poter firmare un ordine di scarcerazione, così da non lasciare neppure un’ora di più in prigione un imputato. Lavorava infaticabilmente, senza alcuna smania di protagonismo, senza ostentazione. Rifuggiva, anzi, con ogni mezzo la notorietà.  A tal proposito il cugino Alessandro Livatino dice : "Rosario era schivo non solo di onori, ma anche di feste, di riunioni rumorose e frastornanti. La sua era una missione e un missionario deve avere una sola meta, tendere ad un solo traguardo. Lavoratore metodico ed instancabile, partiva ogni mattina dalla modesta casa paterna con una normale utilitaria e poteva permettersi, per rango sociale e per la funzione che esercitava, molto di più!, lavorava con fervore, attenzione e lucidità sui fascicoli giudiziari: carte che spesso portava a casa, per ristudiarle sino a tarda sera, anche di notte." Uomo di legge, uomo di Cristo. Impegnato nell’Azione Cattolica, assiduo all’eucaristia domenicale, discepolo del crocifisso. Rosario conosceva    sant’Agostino, il De vera religione, anche per lui non c’è contraddizione alcuna tra fede e ragione e Dio sa quanto la ragione, il raziocinare logico, sia preponderante nella mentalità tipicamente "cartesiana" dei siciliani, perché entrambe vanno alla ricerca di Dio. Rosario ha una_profonda conoscenza delle Sacre Scritture, dei Documenti conciliari, della Patristica. Il suo è un cristianesimo che si nutre di studio, di letture meditate, di riflessione. È un uomo di preghiera, e la preghiera è il cuore delle sue giornate, è la guida che informa la sua vita e che, parafrasando il grande mistico spagnolo san Giovanni della Croce, la trascina "verso il centro che è Dio, e fa discendere dei gradini sempre più profondi...”. Il passaggio ha coinciso comunque con la scoperta che saremo tutti, indistintamente, giudicati  non sulla ricchezza, sull’intelligenza, sulle capacità personali o su altre cose, ma soltanto sull’amore. Il banco di prova è, e resta, la carità ,un concetto questo su cui, come abbiamo visto, Rosario ritorna spesso: la carità nel giudicare, la carità nella verità, la carità che è sorella della contrizione, figlia dell'umiltà. Rosario aveva voluto che nell’aula delle udienze vi fosse sempre un crocefisso, come richiamo di carità e rettitudine. Inoltre egli teneva un crocefisso anche sul suo tavolo, insieme con una copia del Vangelo. Il Vangelo era tutto annotato, segno che doveva frequentarlo piuttosto spesso, almeno quanto i codici, strumenti quotidiani del suo lavoro. "Dalla soddisfazione di sé del 'buon cattolico' che compie i suoi doveri, legge un buon giornale, vota bene eccetera, ma che per il resto fa ciò che gli aggrada, vi è un lungo cammino", per arrivare a una vita che sianelle mani e venga dalle mani di Dio, con la semplicità del bambino e l'umiltà del pubblicano. Ma chi ha percorso una volta quel cammino, non tornerà più indietro…. Di Rosario tante cose si sono conosciute soltanto dopo la morte, come ad esempio, della sua carità, del suo amore per gli ultimi, per i poveri. Ogni mese, in segreto, consegnava una somma di denaro a persone che versavano in stato d’ indigenza, e lui lo sapeva; puntuale e sempre in incognito, faceva pure la spesa per alcuni di essi, soccorrendo alle loro prime necessità. Quando è morto, il custode dell’obitorio piangeva ricordando tutte le volte che lo aveva visto pregare accanto a cadaveri di individui di cui egli ben conosceva la fedina penale, pregiudicati nei quali si era imbattuto svolgendo il suo lavoro di sostituto procuratore al Tribunale di Agrigento;  nei loro confronti, egli aveva anche applicato la legge, ma non per questo essi avevano cessato di essere suoi fratelli in Cristo  anche nella sventura . Di Rosario molte cose si sono conosciute solo dopo la sua morte. Della sua carità, del suo amore per gli ultimi, per i poveri.  Infatti fu sicuramente credibile come giudice, mise a segno numerosi colpi nei confronti della mafia operando in magistratura con meriti eccezionali: a lui si devono importanti indagini antimafia che portarono alla confisca dei beni dei boss. L’utilizzo di questo strumento lo fece diventare bersaglio di Cosa nostra, ma nonostante la minaccia mafiosa, era sorretto dalla sua profonda fede tant’è che papa Giovanni Paolo II il 9 maggio del 1993 in occasione della sua visita pastorale in Sicilia  lo definì martire della giustizia e, indirettamente, anche  della fede”. Occorre investire sempre di più nella diffusione della cultura della legalità per garantire un futuro di libertà e di prosperità alle giovani generazioni . Il suo esempio e il suo sacrificio è un onore per le istituzioni, per la società civile e per tutti coloro, ciascuno nel proprio ruolo, che lottano contro la criminalità organizzata per questo  dobbiamo proseguire con tenaciail virtuoso percorso intrapreso senza mai abbassare la guardia. Oggi quel sacrificio continua ad essere punto di riferimento, un modello di comportamento civile e professionale, da guardare ed emulare, non solo per l’impegno dei magistrati impegnati nella lotta alla mafia, ma anche per i cittadini e soprattutto per i giovani. Il suo martirio diventa così metafora della forza della cultura dell’antimafia, del simbolo di un operare silenzioso, di un quotidiano agire nel rispetto delle regole, di una grande testimonianza di fede e dell’amore che, da autentico cristiano, egli nutriva verso il prossimo. La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell'amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana.  Sono trascorsi  quasi  ventuno  anni  dalla sua morte, la lezione morale che ci trasmette è quella di un testimone radicale della Giustizia, che in essa credeva profondamente, come progetto di fede e come esercizio di carità scelto da Cosa nostra per porre violentemente fine alla vita di un giovane magistrato di Canicattì. Una storia di vita breve, scritta con coerenza, una testimonianza esemplare per ricordare che il fare è la premessa e la speranza del cambiamento.. Da quando entrò  in magistratura nel 1978, Livatino fu sempre impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata ,ma egli fu soprattutto un uomo di fede che intendeva vivere quotidianamente “sub tutela Dei”, come lui stesso annotava nella prima pagina di ogni sua agenda. A sentire le testimonianze di coloro che l’hanno conosciuto bene, Rosario Livatino brillava per onestà, coerenza, preparazione. E non solo nel campo giuridico: basta rileggere l’interessante relazione su Fede e diritto, per constatare quanto fosse profonda la sua conoscenza in materia di teologia biblica. Non c’è dubbio che la morte efferata di Rosario Livatino ha permesso un maggiore impegno per il cambiamento delle coscienze di tutti. Se quello del riscatto è comunque un percorso doloroso, molto lungo, è certo che “quel martire della giustizia e della fede” un miracolo lo ha già fatto: ha scatenato un nuovo processo culturale nella percezione della pericolosità della mafia, quella maggiore e migliore attenzione a Cosa nostra che l’ha resa se non più debole,  meno sicura e prepotente. Uno scossone che nel tempo è maturato in una riflessione che ha coinvolto tanto gli addetti ai lavori quanto i singoli cittadini. Tra le frasi più conosciute di Rosario Livatino, prese da un suo quaderno, una colpisce in particolare e rappresenta la sintesi del suo modo d’intendere gli impegni quotidiani dell’uomo, del cristiano, del giudice, del cittadino: in pratica quell’unità di vita tanto difficile da realizzare e raggiungibile solo se sorretti da una fede grande. Il giudice Livatino aveva scritto: “non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”. Parole non solo scritte, pronunciate e meditate ma anche vissute con una fedeltà tale da portare al martirio. Il suo messaggio, ancora oggi, ci induce a respingere la tentazione di rassegnarci alla violenza e all’illegalità per riappropriarci del sentiero della speranza.
Sulla scorta di tutta una serie di segnalazioni e soprattutto del famigerato anatema contro la mafia pronunciato  da Sua Santità Giovanni Paolo II’ a Piano San Gregorio il 10 maggio 1993, poco dopo l’incontro privato in seminario vescovile con gli anziani genitori di Rosario, si avviò la costituzione dell’Associazione “Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino”, avvenuta ufficialmente nel 1995, e la raccolta, su esplicito incarico del Vescovo di Agrigento monsignor Carmelo Ferraro, delle testimonianze per un possibile avvio delprocesso diocesano di canonizzazione che ad oggi non è stato mai avviato; mi auguro  che al più presto possa andare  verso gli onori dell’altare, perché era un uomo che sapeva benissimo quello a cui andava incontro, ma procedeva sicuro di se stesso, delle sue convinzioni, ma soprattutto della sua fede. Il suo coraggio era semplicemente quello delle proprie idee, delle proprie azioni, il coraggio di dire e dimostrare al mondo che si può essere corretti, onesti, irreprensibili. In una  sola parola, giusti.  Per diventare beati, bisogna averne fatto almeno uno miracolo .   Nel caso dei "Martiri" e quindi del Giudice Livatino non servirebbero miracoli anche se legati alla sua figura ne sarebbero stati annunciati almeno un paio. Solo dopo può essere avviato il processo di canonizzazione. Anche  la professoressa, Ida Abate, che fu sua insegnante di latino e greco al liceo classico da quando Rosario non c’è più, lei non ha smesso un solo giorno di girare l’Italia in lungo e in largo, recandosi nelle scuole, ma anche in televisione, dovunque insomma la chiamassero per parlare del “suo” giudice .Sull’allievo scomparso Ida Abate ha speso fiumi di parole, ha scritto molte lettere e testimonianze, e di recente è stata incaricata dal Vescovo di Agrigento, mons. Ferraro, di raccogliere le voci, i racconti, le dichiarazioni di quanti conobbero in vita Rosario, così da poter dare inizio a quel lungo e complesso iter che forse un giorno lo porterà sugli altari. Voglio concludere con  un pensiero di Sant'Agostino “le parole insegnano, gli esempi trascinano. Solo i fatti danno credibilità alle parole".


Francesco TIANI

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