martedì 29 marzo 2011

Giudice Rosario Angelo Livatino




E' troppo importante ricordare la memoria di quest'uomo che sacrificò la sua vita per la Giustizia e per lo Stato Italiano rimanendo fedele ai suoi principi in un periodo storico in cui lo stillicidio omicida di magistrati e uomini delle forze dell’ordine generava paura omertà e connivenze.  Le sue inchieste avevano colpito la Stidda, un’organizzazione mafiosa diffusa nella Sicilia orientale che fino ad allora aveva agito indisturbata grazie a complicità e coperture; la cosiddetta tangentopoli siciliana, che aveva proliferato grazie ad un sistema di collusioni tra mafia, politica ed economia. La testimonianza del giudice Rosario Livatino sia da esempio alla politica, alla società civile e in particolare alle nuove generazioni. A dispetto della sua giovane età Livatino interpretò il ruolo di giudice e di cittadino con grande senso del dovere e responsabilità ; egli credeva profondamente nei valori della giustizia e della legalità. Il ‘giudice ragazzino’, come è meglio conosciuto grazie allo sprezzo con cui gli si rivolse Cossiga quando il giudice sviscerò i legami tra mafia e massoneria –sottolineano - rappresentando  appieno i valori dell’indipendenza della magistratura, in un momento in cui i vertici governativi puntavano a controllare i giudici per snaturarne la funzione. E oggi come allora  , i magistrati sono perseguitati dai politici per scopi personali , per questo bisogna  sempre ricordarsi   di magistrati valorosi , coraggiosi  e onesti come Livatino  Borsellino e Falcone . Rosario Livatino era un siciliano  educato e cresciuto nella nostra terra. E questo a conferma che dal cuore della Sicilia provengono esempi virtuosi per le generazioni future, schierati fra le file del bene e pronti anche all’estremo sacrificio. Con i suoi lineamenti dolci, il sorriso appena accennato, i capelli neri pettinati con la riga di lato con gli occhi scuri e profondi ; lo sguardo fermo e penetrante. Un fisico minuto da adolescente; semplice e austero , sobrio persino nel vestire: giacca e cravatta anche in piena estate, che non è facile da sopportare col caldo isolano. Un’infanzia serena vissuta nella semplicità e nel decoro di una famiglia borghese, appartata e schiva, che lo seguiva con attenzione e tenero affetto. Rosario era  nato a Canicattì il 3 ottobre 1952, dal papà Vincenzo, laureato in legge e pensionato dell'esattoria comunale, e dalla mamma Rosalia Corbo.
Negli anni del liceo Livatino era  il ragazzo che scendeva di rado a fare ricreazione per restare in classe ad aiutare qualche compagno in difficoltà. Aperto ai bisogni degli altri, ma riservato su di sé, studiava intensamente, inoltre s’impegna nell’Azione Cattolica. Rosario conseguì la laurea in Giurisprudenza all'Università di Palermo il 9 luglio 1975 a 22 anni col massimo dei voti e la lode.  Il conseguimento della laurea, alla prima sessione utile, era solo la momentanea conclusione di una brillantissima carriera scolastica. Giovanissimo entra nel mondo del lavoro vincendo il concorso per vicedirettore in prova presso la sede dell'Ufficio del Registro di Agrigento .
Per un liceale affascinato da Dio arriva infine il giorno fatidico della scelta: che cosa farà da grande? E non ha alcun dubbio: farà il giudice.
Nel ‘78, a ventisei anni, può coronare il suo sogno. Sulla propria agenda quel giorno scrive con la penna rossa, in bella evidenza: “Ho prestato giuramento; da oggi sono in Magistratura”. E poi, a matita, vi aggiunge: “Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”.
Livatino avverte, infatti , in maniera molto forte il problema della giustizia e lo assume ben presto come una vera missione. Il dramma del giudicare un altro essere umano, di dover decidere della sua sorte, non è cosa da poco per chi senta profondo in sé il tarlo della coscienza unito a un sincero senso di carità.
Nel frattempo però partecipa con successo al concorso in magistratura e superatolo lavora a Caltanissetta quale uditore giudiziario passando poi al Tribunale di Agrigento, dove per oltre un decennio, dal  '79 al '89, come Sostituto Procuratore della Repubblica, si occupa delle più delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche  di quella che poi negli anni '90 sarebbe scoppiata come la "Tangentopoli siciliana". 
Rosario non volle mai far parte di club o associazioni di qualsiasi genere. Rosario Livatino fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre '90 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre - senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto - si recava in Tribunale. Per la sua morte sono stati individuati, grazie al supertestimone Pietro Ivano Nava, i componenti del commando omicida e i mandanti che sono stati tutti condannati, in tre diversi processi nei vari gradi di giudizio, all'ergastolo con pene ridotte per i "collaboratori".  Rimane ancora oscuro il contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice ininfluenzabile e corretto.

 Prima di lui, il 25 settembre 1988, stessa sorte toccò al presidente di Corte d'Assise d'Appello Antonino Saetta e al figlio Stefano trucidati in un agguato mafioso, senza scorta e con la sua auto, faceva rientro a Palermo dove abitava e lavorava. Per questo duplice omicidio dopo quasi dieci anni sono stati individuati e condannati con un unico processo i presunti mandanti ed esecutori superstiti. Rosario Livatino era  un giovane giudice, un cristiano praticante . Non un santo a tutti i costi, non un superuomo, ma un uomo come mille altri. Innamorato della vita, della giustizia, della verità. Eroe per caso nella terra  baciata dal sole ma anche della  lupara e del tritolo mafioso. Uno dei cosiddetti "giudici ragazzini" chiamati a fronteggiare "Cosa nostra". L’Italia lo conobbe dalle pagine dei giornali soltanto all’indomani della sua morte dopo il barbaro assassinio, la sua figura ha cominciato a distinguersi nell’immaginario di chi vive nell’Italia di oggi ma ne sogna una diversa. Da Canicattì tutte le mattine raggiungeva la sede del Tribunale, ad Agrigento, una manciata di chilometri percorsi in automobile. Prima di entrare in ufficio, la visita puntuale alla chiesa di S. Giuseppe, vicino al Palazzo di Giustizia, dove si fermava a pregare. Lo ricorda bene mons. Giuseppe Di Marco, vicario diocesano, allora parroco, che molte volte si era domandato chi fosse quel giovane così raccolto, concentrato nelle sue preghiere. "Non sapevo chi fosse, solo dopo la tragedia, quando ho visto la sua foto sul giornale, ho capito chi era … Rimaneva a pregare  per un po’  e poi se ne andava in silenzio. ". I casi più difficili del suo lavoro di giudice, Rosario li risolveva lì, ai piedi dell’altare, la mattina prima di entrare in Tribunale. LìSarò invocava l’assistenza dello Spirito Santo per poter giudicare con retto giudizio, per scegliere ciò che era meglio da farsi "e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare…", aveva scritto. La  madre Rosalia testimonia: "In casa ha sempre respirato aria di convinta religiosità, ma soprattutto su di lui hanno influito idocenti di religione, sacerdoti di altissimo livello dottrinale e spirituale. Per la sua formazione personale sono stati importantissimi. Rosario, inoltre, credeva tanto nella forza della preghiera: la sua giornata iniziava e si concludeva con la lode al Signore. Alla Procura di Agrigento il lavoro era sempre tanto e lui non si tirava mai indietro. Restava in ufficio anche quando non c’era più nessuno. Scrupoloso, il giorno di ferragosto non esitò una volta a presentarsi in Procura solo per poter firmare un ordine di scarcerazione, così da non lasciare neppure un’ora di più in prigione un imputato. Lavorava infaticabilmente, senza alcuna smania di protagonismo, senza ostentazione. Rifuggiva, anzi, con ogni mezzo la notorietà.  A tal proposito il cugino Alessandro Livatino dice : "Rosario era schivo non solo di onori, ma anche di feste, di riunioni rumorose e frastornanti. La sua era una missione e un missionario deve avere una sola meta, tendere ad un solo traguardo. Lavoratore metodico ed instancabile, partiva ogni mattina dalla modesta casa paterna con una normale utilitaria e poteva permettersi, per rango sociale e per la funzione che esercitava, molto di più!, lavorava con fervore, attenzione e lucidità sui fascicoli giudiziari: carte che spesso portava a casa, per ristudiarle sino a tarda sera, anche di notte." Uomo di legge, uomo di Cristo. Impegnato nell’Azione Cattolica, assiduo all’eucaristia domenicale, discepolo del crocifisso. Rosario conosceva    sant’Agostino, il De vera religione, anche per lui non c’è contraddizione alcuna tra fede e ragione e Dio sa quanto la ragione, il raziocinare logico, sia preponderante nella mentalità tipicamente "cartesiana" dei siciliani, perché entrambe vanno alla ricerca di Dio. Rosario ha una_profonda conoscenza delle Sacre Scritture, dei Documenti conciliari, della Patristica. Il suo è un cristianesimo che si nutre di studio, di letture meditate, di riflessione. È un uomo di preghiera, e la preghiera è il cuore delle sue giornate, è la guida che informa la sua vita e che, parafrasando il grande mistico spagnolo san Giovanni della Croce, la trascina "verso il centro che è Dio, e fa discendere dei gradini sempre più profondi...”. Il passaggio ha coinciso comunque con la scoperta che saremo tutti, indistintamente, giudicati  non sulla ricchezza, sull’intelligenza, sulle capacità personali o su altre cose, ma soltanto sull’amore. Il banco di prova è, e resta, la carità ,un concetto questo su cui, come abbiamo visto, Rosario ritorna spesso: la carità nel giudicare, la carità nella verità, la carità che è sorella della contrizione, figlia dell'umiltà. Rosario aveva voluto che nell’aula delle udienze vi fosse sempre un crocefisso, come richiamo di carità e rettitudine. Inoltre egli teneva un crocefisso anche sul suo tavolo, insieme con una copia del Vangelo. Il Vangelo era tutto annotato, segno che doveva frequentarlo piuttosto spesso, almeno quanto i codici, strumenti quotidiani del suo lavoro. "Dalla soddisfazione di sé del 'buon cattolico' che compie i suoi doveri, legge un buon giornale, vota bene eccetera, ma che per il resto fa ciò che gli aggrada, vi è un lungo cammino", per arrivare a una vita che sianelle mani e venga dalle mani di Dio, con la semplicità del bambino e l'umiltà del pubblicano. Ma chi ha percorso una volta quel cammino, non tornerà più indietro…. Di Rosario tante cose si sono conosciute soltanto dopo la morte, come ad esempio, della sua carità, del suo amore per gli ultimi, per i poveri. Ogni mese, in segreto, consegnava una somma di denaro a persone che versavano in stato d’ indigenza, e lui lo sapeva; puntuale e sempre in incognito, faceva pure la spesa per alcuni di essi, soccorrendo alle loro prime necessità. Quando è morto, il custode dell’obitorio piangeva ricordando tutte le volte che lo aveva visto pregare accanto a cadaveri di individui di cui egli ben conosceva la fedina penale, pregiudicati nei quali si era imbattuto svolgendo il suo lavoro di sostituto procuratore al Tribunale di Agrigento;  nei loro confronti, egli aveva anche applicato la legge, ma non per questo essi avevano cessato di essere suoi fratelli in Cristo  anche nella sventura . Di Rosario molte cose si sono conosciute solo dopo la sua morte. Della sua carità, del suo amore per gli ultimi, per i poveri.  Infatti fu sicuramente credibile come giudice, mise a segno numerosi colpi nei confronti della mafia operando in magistratura con meriti eccezionali: a lui si devono importanti indagini antimafia che portarono alla confisca dei beni dei boss. L’utilizzo di questo strumento lo fece diventare bersaglio di Cosa nostra, ma nonostante la minaccia mafiosa, era sorretto dalla sua profonda fede tant’è che papa Giovanni Paolo II il 9 maggio del 1993 in occasione della sua visita pastorale in Sicilia  lo definì martire della giustizia e, indirettamente, anche  della fede”. Occorre investire sempre di più nella diffusione della cultura della legalità per garantire un futuro di libertà e di prosperità alle giovani generazioni . Il suo esempio e il suo sacrificio è un onore per le istituzioni, per la società civile e per tutti coloro, ciascuno nel proprio ruolo, che lottano contro la criminalità organizzata per questo  dobbiamo proseguire con tenaciail virtuoso percorso intrapreso senza mai abbassare la guardia. Oggi quel sacrificio continua ad essere punto di riferimento, un modello di comportamento civile e professionale, da guardare ed emulare, non solo per l’impegno dei magistrati impegnati nella lotta alla mafia, ma anche per i cittadini e soprattutto per i giovani. Il suo martirio diventa così metafora della forza della cultura dell’antimafia, del simbolo di un operare silenzioso, di un quotidiano agire nel rispetto delle regole, di una grande testimonianza di fede e dell’amore che, da autentico cristiano, egli nutriva verso il prossimo. La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell'amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana.  Sono trascorsi  quasi  ventuno  anni  dalla sua morte, la lezione morale che ci trasmette è quella di un testimone radicale della Giustizia, che in essa credeva profondamente, come progetto di fede e come esercizio di carità scelto da Cosa nostra per porre violentemente fine alla vita di un giovane magistrato di Canicattì. Una storia di vita breve, scritta con coerenza, una testimonianza esemplare per ricordare che il fare è la premessa e la speranza del cambiamento.. Da quando entrò  in magistratura nel 1978, Livatino fu sempre impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata ,ma egli fu soprattutto un uomo di fede che intendeva vivere quotidianamente “sub tutela Dei”, come lui stesso annotava nella prima pagina di ogni sua agenda. A sentire le testimonianze di coloro che l’hanno conosciuto bene, Rosario Livatino brillava per onestà, coerenza, preparazione. E non solo nel campo giuridico: basta rileggere l’interessante relazione su Fede e diritto, per constatare quanto fosse profonda la sua conoscenza in materia di teologia biblica. Non c’è dubbio che la morte efferata di Rosario Livatino ha permesso un maggiore impegno per il cambiamento delle coscienze di tutti. Se quello del riscatto è comunque un percorso doloroso, molto lungo, è certo che “quel martire della giustizia e della fede” un miracolo lo ha già fatto: ha scatenato un nuovo processo culturale nella percezione della pericolosità della mafia, quella maggiore e migliore attenzione a Cosa nostra che l’ha resa se non più debole,  meno sicura e prepotente. Uno scossone che nel tempo è maturato in una riflessione che ha coinvolto tanto gli addetti ai lavori quanto i singoli cittadini. Tra le frasi più conosciute di Rosario Livatino, prese da un suo quaderno, una colpisce in particolare e rappresenta la sintesi del suo modo d’intendere gli impegni quotidiani dell’uomo, del cristiano, del giudice, del cittadino: in pratica quell’unità di vita tanto difficile da realizzare e raggiungibile solo se sorretti da una fede grande. Il giudice Livatino aveva scritto: “non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”. Parole non solo scritte, pronunciate e meditate ma anche vissute con una fedeltà tale da portare al martirio. Il suo messaggio, ancora oggi, ci induce a respingere la tentazione di rassegnarci alla violenza e all’illegalità per riappropriarci del sentiero della speranza.
Sulla scorta di tutta una serie di segnalazioni e soprattutto del famigerato anatema contro la mafia pronunciato  da Sua Santità Giovanni Paolo II’ a Piano San Gregorio il 10 maggio 1993, poco dopo l’incontro privato in seminario vescovile con gli anziani genitori di Rosario, si avviò la costituzione dell’Associazione “Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino”, avvenuta ufficialmente nel 1995, e la raccolta, su esplicito incarico del Vescovo di Agrigento monsignor Carmelo Ferraro, delle testimonianze per un possibile avvio delprocesso diocesano di canonizzazione che ad oggi non è stato mai avviato; mi auguro  che al più presto possa andare  verso gli onori dell’altare, perché era un uomo che sapeva benissimo quello a cui andava incontro, ma procedeva sicuro di se stesso, delle sue convinzioni, ma soprattutto della sua fede. Il suo coraggio era semplicemente quello delle proprie idee, delle proprie azioni, il coraggio di dire e dimostrare al mondo che si può essere corretti, onesti, irreprensibili. In una  sola parola, giusti.  Per diventare beati, bisogna averne fatto almeno uno miracolo .   Nel caso dei "Martiri" e quindi del Giudice Livatino non servirebbero miracoli anche se legati alla sua figura ne sarebbero stati annunciati almeno un paio. Solo dopo può essere avviato il processo di canonizzazione. Anche  la professoressa, Ida Abate, che fu sua insegnante di latino e greco al liceo classico da quando Rosario non c’è più, lei non ha smesso un solo giorno di girare l’Italia in lungo e in largo, recandosi nelle scuole, ma anche in televisione, dovunque insomma la chiamassero per parlare del “suo” giudice .Sull’allievo scomparso Ida Abate ha speso fiumi di parole, ha scritto molte lettere e testimonianze, e di recente è stata incaricata dal Vescovo di Agrigento, mons. Ferraro, di raccogliere le voci, i racconti, le dichiarazioni di quanti conobbero in vita Rosario, così da poter dare inizio a quel lungo e complesso iter che forse un giorno lo porterà sugli altari. Voglio concludere con  un pensiero di Sant'Agostino “le parole insegnano, gli esempi trascinano. Solo i fatti danno credibilità alle parole".


Francesco TIANI

venerdì 18 marzo 2011

I have a dream.


Nell'agsto del '63, quando Martin Luther King gridava ad una folla immensa "i 
have a dream" io non ero nato, ma i sogni violentano spesso le mie notti e 
quando accade, spero che il mattino successivo sia tutto diverso. Spero, 
andando al lavoro, che in quell'ufficio angusto entri luce naturale invece che 
quella di sei neon, spero che nel mio ufficio ci siano, oltre me, solo altri 
due colleghi e che le scrivanie abbiano, non sogno da capitalista, almeno un 
pentium 4. Spero che quella mattina le macchine di servizio vadano in moto, che 
le 4 gomme siano gonfie, che nessuna spia si accenda sul cruscotto e che la 
radio funzioni. Spero che non mi si chiami all'improvviso per avvisarmi che 
"domenica lavori, domani fai il pomeriggio invece della mattina, la settimana 
prossima non puoi andare in ferie manca il personale". Spero che il contratto 
di lavoro con la sua parte decentrata, siano applicati senza che nessuno stia 
lì a dire "guarda che quello non si può fare, hai messo il collega a lavorare 
tre domeniche in un mese, il doppio turno di servizio, anche se a straordinario,
non si può fare e così via". Spero ancora una volta che tutti capiscano 
l'importanza delle conquiste che il sindacato ottiene perchè ogni conquista è 
una lotta fra poveri in meno. Spero che il primo gennaio di ogni biennio ci sia 
il nuovo C.d.L. attuato. Poi...poi arrivo a lavoro e mi accorgo che nacora una 
volta Morfeo si è preso gioco di me e che poteva anche evitare di illudermi.


                                                                                                          Francesco TIANI

giovedì 17 marzo 2011

La storia di oggi è ancora quella di ieri



Il 17 marzo  celebreremo   i 150 anni dell’unità d ‘Italia , ma ancora oggi  si parla di “due Italie”per indicare il divario che si è creato e che continua sempre più  ad aumentare tra le regioni industrializzate del nord e il sud  causato da    uno scarso   sviluppo industriale  della nostra amata terra del sud, dovuto a mancanza d’ impegno da parte delle nostre istituzioni e forze politiche territoriali  .Il  nostro meridione ha una ricchezza enorme  , basata sul mare e sulle sue coste  ; una posizione  invidiabile in quanto è al  centro del Mediterraneo  .  Queste risorse  era più valorizzati al tempo dei Borboni  che oggi  che potrebbero  essere centro di commercio con i paesi Africani e Asiatici .Si è sempre  parlato  di rapporti inversamente proporzionali tra nord e sud : mentre il nord diventa sempre più ricco , il sud diventa sempre più povero . Questo  divario tra lo sviluppo delle regioni del nord   , industrializzate e   ben floride economicamente e l’arretratezza del Sud risale a tempi  lontanissimi .Già al momento della formazione dello Stato italiano si cominciò a parlare di “questione meridionale” , problema ancora  rimasto  irrisolto  .  Molti fattori hanno contribuito a consolidare questo divario ,  viviamo in sud con poche  ferrovie e  alcune ad unico binario , con  strade disastrate  per le  continue interruzioni di lavori in corso  . A tutto questo contribuisce  la mancanza  di lavoro in ogni categoria ,mentre   al  nord troviamo  strade  facilmente percorribili a diverse corsie e  un elevato sviluppo economico industriale con   possibilità di lavoro .Lo Stato da parte sua contribuì  ad aggravare questo stato di cose ; infatti , i prelievi fiscali più gravosi furono operati nel sud, considerato da molti “zona conquistata”  e  venne depredato con una pesante politica fiscale e con la soppressione di attività produttive che avevano dato lavoro a migliaia di operai al tempo del regime borbonico , mentre al nord  si elargivano  e si impiegavano soldi per costruire moderne  infrastrutture con cospicui investimenti in tutti i settori produttivi   , facendo sì  che si aggravasse ancora di più quella  disparità ,già abbastanza evidente , tra il nord e il sud . Le popolazioni più sfortunate , presso le quali  si avvertivano già  le ingerenze di tipo mafioso e camorristico , si ribellarono dedicandosi al banditismo , che fu stroncato con una sanguinosa repressione.
A molti meridionali , per sfuggire alla miseria , non rimase altra  via che l’emigrazione  con l’abbandono totale  delle proprie terre per andare a trovare un posto di lavoro nelle fabbriche .In seguito furono  varate molte leggi a favore del Mezzogiorno , ma furono solo rimedi temporanei per un male troppo radicato e profondo nel tempo .Il periodo fascista vide nel colonialismo e nella bonifica delle terre incolte la risoluzione del problema , ma esso  si aggravò  per un’errata campagna demografica  e cioè  per la riduzione dei salari dei braccianti  .Dopo la seconda guerra mondiale fu istituita la Cassa per il Mezzogiorno  e cioè  per l’industrializzazione del sud che operò fino agli anni ’80  , ma non ottenne risultati brillanti , anche se fu la causa  di una guerra al latifondismo , che distribuì 500.000 ettari di terra  a decine di migliaia di coltivatori diretti. Solo le regioni che entrarono nell’area della industrializzazione  acquistarono   le caratteristiche dei Paesi avanzati , con moderni metodi di produzione    e tecniche scientifiche sempre all’ avanguardia  di distribuzione  producendo così  elevate quantità di consumi , ma le altre parti del paese rimasero  in uno stato di arretratezza con minori possibilità di sviluppo . Con l’unità del regno la situazione peggiorò , perché , con la scomparsa  dei dazi protettivi , i produttori dell’Italia del nord   trovarono più vasti mercati per collocare i loro prodotti , facendo una notevole concorrenza a quelli del  sud .Comunque le popolazioni delle regioni del sud  potrebbero  ancora oggi uguagliare lo sviluppo economico di quelle del nord  utilizzando le ricchezze   territoriali che forse non sono state sfruttate nel modo adeguato .Una delle attività economiche più sviluppate nel nostro Paese è quella turistica ,ma nel sud non è realizzata nel modo migliore ,  per diversi  motivi rimanendo una turismo solo di  “transiti”. Celebrare a dovere i 150 anni dell'Unità d'Italia potrebbe significare impegnarsi a «rintracciare i documenti mancanti, forse ancora nascosti e dimenticati». Perché senza memoria e senza giustizia un popolo cresce sghembo e non impara a rispettare e a rispettarsi. La storia è  fasulla   interpretata male  , Garibaldi non è un eroe e  l’unita d’Italia ha rovinato il Sud. Tutti  gli storici ansiosi di celebrare il falso mito di Garibaldi vadano a tirar fuori  i veri  documenti custoditi negli archivi delle Prefetture e delle Questure del Sannio, dell'Irpinia, della Puglia, della Lucania, dell’ Abruzzo, del Molise,  della Calabria  resterebbero  scioccati dalle stragi, dagli  incendi, dalle devastazioni, dai genocidi compiuti dal 1860 al 1865 nel sud Italia durante quello che al storiografica dell'Italietta ottocentesca definitì "Brigantaggio" e che invece fu solo una grande guerra di popolo e di liberazione repressa nel sangue. Perché non ricordare che i tanto celebrati "Mille" vennero a patti con la Mafia siciliana e con la Camorra napoletana  e perché non ricordare che il popolo, quello vero, i meridionali rimasero fedeli, fino alla morte più atroce, al loro Re e alla loro Patria  . Le gesta di schiere di uomini eroi  come il generale  Josè Borjes, Carmine Crocco , che nulla hanno da invidiare ai partigiani della Secondo Guerra mondiale. Questa  è la  vera Resistenza, intesa come lotta di popolo, che l'Italia ha conosciuto non è quella del '43-45, ma quella vissuta nel Sud Italia dal '60 al '65.  Invece di allestire mostre sui "cimeli" garibaldini, gli storici e i curatori di musei, facciano vedere al pubblico gli orrori che i bersaglieri, i carabinieri e i garibaldini commisero ai danni dei sudditi  ….donne stuprate, di uomini massacrati, torturati, decapitati, di villaggi incendiati, di montagne deforestate.  I  piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto e  cancellarono per sempre molti paesi.La storia del nostro Risorgimento è condizionata e contaminata da una retorica che ha costruito, nell'immaginario dei cittadini italiani, un passato leggendario fondato sull'eroismo e sul martirio d'una minoranza di combattenti che credevano nel Bene comune della patria . Quel Bene era la fondazione dell'Italia unita . Le cose non stanno proprio così, e non ha senso raccontarsi favole. Servirebbe  una profonda opera di revisione storiografica. Perché s'è trattato d'una guerra civile: e perché a raccontarla, come sempre, è stato il vincitore. Un vincitore che ha imposto la damnatio memoriae sui vinti, riducendo i suoi massacri alla stregua di semplici operazioni di polizia. …. Bisogna che  il Risorgimento sia recuperato per intero, nel bene e nel male. ….perché è dall'Unità in avanti che questo Paese è diventato importante ……. cercare la verità a proposito di quanto è accaduto non può macchiare l'orgoglio della nascita di una nazione. L'Unità d'Italia non seppe integrare tradizioni, culture e lingue delle varie regioni  ed educazione l’ unità e al rispetto delle proprie origini. La verita' e' che l'Unita' d'Italia e' fallita.  Il federalismo fiscale non e' altro che la constatazione di questa sconfitta. Qui il problema non e' la solidarieta' nazionale tra ricchi e poveri, tra chi ha e chi non ha, tra chi solo produce e chi solo spende. La vera questione e' di non farci prendere in giro dai moderni "Gattopardi". La Storia sociale ed economica della nostra Nazione e' li` a testimoniare che l'enorme frattura economica tra Nord e Sud, questa malattia apparentemente incurabile, non e' frutto del caso. …. non e' figlia della differenza dei comportamenti sociali tra "polentoni" laboriosi e "terroni" sfaticati…… è  il risultato della politica sbagliata  applicata nei confronti del Meridione per 150 anni….. Ma l’Italia si è fatta in un altro modo. Ha perduto l’autobus dell’unione federalista. E dopo il fascismo, la guerra, il progressivo sfascismo postbellico, oggi siamo pervenuti a un Paese che sta tentando di attuare di nuovo un progetto federale. Non so se è corretto come quello che sarebbe stato opportuno intraprendere un secolo e mezzo fa. So che alla luce delle nostre scelte di oggi non si può non concludere che quella del regno unitario fu una “falsa partenza”. L’Italia è come uno specchio rotto in cui è diventato impossibile specchiare un’identità collettiva, una visione unitaria del bene comune, una classe dirigente degna del nome. Ognuno si specchia nel suo frammento di specchio e pensa di essere il tutto o il nulla. Appartengo ad una generazione che è cresciuta con la cultura del “senso di colpa” e che è consapevole di aver scelto di vivere in un posto che un domani lascia  ai propri figli.  E che crede che sia un proprio dovere , oltre che un proprio sogno realizzabile, provare a rendere questo Paese semplicemente “migliore”…

FRANCESCO TIANI

sabato 12 marzo 2011

Per non dimenticare.



Sono tanti, troppi i poliziotti, magistrati, giornalisti e uomini delle forze dell'ordine uccisi per mano della mafia. Alcuni dimenticati, altri più spesso ricordati dalle cronache , ma tutti ugualmente eroi  perché  la grandezza di questi uomini, non sta nel modo in cui sono morti, ma nel modo in cui hanno vissuto. Ho  voluto  ricordare , Sergio Cosmai , una  figura  straordinaria ,  nato a Biscegliedirettore del carcere di Cosenza ucciso il 12 marzo del 1985 , Omicidi ordinati dalla 'ndrangheta cosentina per la disciplina imposta ai criminali detenuti. La condanna a morte per Cosmai fu eseguita il 12 marzo del 1985, lungo la statale 19, tra Cosenza e Rende. Il direttore 36enne guidava la sua Fiat 500, diretto alla scuola della figlia, una bambina di 7 anni. Affiancato dai killer, è stato bersagliato da colpi di pistola. Morirà in ospedale.  A guidare le indagini del dopo attentato è stato l'allora capo della squadra mobile di Cosenza, Nicola Calipari   funzionario dei servizi segreti italiani morto in Iraq nel 2005 . Secondo le rivelazioni dei pentiti, Cosmai è stato ucciso perché aveva osato imporre regole ferree ai detenuti durante una protesta in carcere, non aveva ceduto alle richieste provocatorie dei detenuti, ordinando, come da regolamento,  un blitz per ristabilire l'ordine ,  ma  ai  boss della 'ndrangheta cosentina Cosmai dava fastidio e doveva essere eliminato.  Tutta la società civile   deve ricordare i martiri, vittime della brutalità criminale della mafia  e che essi  siano di esempio per   tutti i giovani  ricordando che la legalità e le regole sono valori che vanno difesi strenuamente anche con la vita.
Tutto questo accade al sud dove  si  ignora volutamente  la legalità e la cultura.
Infatti  la questione meridionale nasce  con l’Unità d’Italia  e  tuttora   il sud continua a dare mano d’opera alle industrie del nord, costituendo   area di consumo per i prodotti del nord, rimanendo  un bacino elettorale che influenza il formarsi della maggioranza parlamentare e di governo del Paese . Per  contrastare la mafia.  bisogna ricostruire la democrazia nel Mezzogiorno e rafforzarla nel resto d’Italia, con l’impegno di tutti: sia di coloro che rappresentano gli interessi dei cittadini nei partiti, nella politica, nelle istituzioni, nei sindacati, nei movimenti, nelle associazioni di categoria, sia con l’impegno dei singoli e  degli stessi cittadini. Se un partito, un governo, uno Stato  operasse in questa direzione meriterebbe la fiducia dei cittadini, condizione essenziale per non ridurre la lotta contro la mafia a una guerra tra buoni e cattivi e per farle acquisire la dignità di un impegno per la conquista della libertà, della democrazia, di una maggiore giustizia sociale. Non abbassiamo la soglia della coscienza dell’illegalità, non coltiviamo la rassegnazione, la neutralità, l’indifferenza soprattutto in posti dove l’unica lingua parlata è il silenzio e l’omertà.Bisogna urlare che non riteniamo giustificabile la corruzione, i favoritismi, i compromessi, l’intimidazione, la violenza, il finanziamento illegale della politica, la compravendita degli appalti, l’appropriazione dei finanziamenti pubblici, lo svuotamento delle casse delle aziende pubbliche, il taglieggiamento di quelle private. 
Perché il sangue di  coloro che hanno perso la vita per mano dei mafiosi  non sia stato versato invano   ; si impone all’attenzione di tutti , una costante presenza, sulla pericolosità e l’attualità del fenomeno mafioso in modo che il loro sacrificio non sia  stato vano ,   ma  rimanga  un monito per   le coscienze di tutti gli italiani onesti .

  FRANCESCO TIANI

giovedì 10 marzo 2011

Siamo soli, l'Europa non sta facendo nulla.





Basta uscire nelle nostre strade , in un ora qualsiasi del giorno , per accorgersi che l’Italia è letteralmente invasa da un gran numero di cittadini di paesi diversi, Africa, Asia, America del sud .Fino a qualche decennio fa si verificava il fenomeno opposto ,infatti ,erano i nostri connazionali che , spinti dalle necessità della vita , lasciavano l’Italia  per andare a trovare lavoro altrove, in terre  lontane  , con abitudini di vita diverse , privati dei loro affetti e destinati a condurre una vita di stenti per mandare i loro risparmi alle famiglie ,povere risorse che costituivano l’unico loro mezzo di sostentamento ,ma  molti riuscivano anche a metter da parte qualcosa , in modo da poter , in seguito, rientrare dall’estero e riunire la famiglia ,iniziando qui , in Italia , un attività che permettesse loro di vivere decorosamente. Oggi, invece, in Italia  l’immigrazione trova ostilità perché   non  fa che aumentare  il tasso di criminalità nella nostra società già collusa. Non si arrestano gli sbarchi di immigrati… da mezzanotte all'alba  e viceversa .In questi ultimi  settimane sono sbarcati almeno in mille sull'isola di Lampedusa dalle coste africane, a bordo di diverse imbarcazioni col il mare  calmo o agitato , con la pioggia, con il vento . o  con il  sole. Sulla banchina del molo centinaia e centinaia  d’ immigrati rimangono  in attesa di essere portati in varie strutture di accoglienza per poi, come avvenuto in questi giorni, essere trasferiti altrove via aereo o nave .  Dalla Tunisia e  dalla Libia  scappano   generazioni intere, infatti, sono attualmente oltre 2.500 gli immigrati presenti a Lampedusa, mentre gli sbarchi continuano ancora. Sono uomini, donne  senza diritti, senza dignità, senza riconoscimenti che sperano di raggiungere la nostra terra  per avere dignità e lavoro … …  ma si trovano in una terra  ostile  che non riesce a sfamare  neanche i suoi concittadini. Ben altro qui li attende e non certo quello che immaginavano di trovare: una realtà drammatica e dolorosa di respingimenti, decreti di espulsioni, “muri” chiamati ora centri d’ identificazioni e prima centri di permanenza temporanea. Il vero  dramma rimane  quello  dei clandestini , che privi  di documenti  scappano ,raccogliendo freddolosamente le poche cose che ancora possiedono  e  attraversano   l’adriatico con mezzi di fortuna , procurati da gruppi che cercano di sfruttarli in tutti i modi sia  quando  raggiungono  il nostro suolo , ma anche dopo , costringendoli ad accettare una vita fatta di compromessi , di piccoli furti   e anche a  delinquere .Questo arduo  compito  è affidato  dallo Stato ai poliziotti che sebbene numericamente insufficienti per far fronte a questa situazione d’emergenza   e con gli sbarchi  che si susseguono continuamente    sono costretti ad aumentare le ore di servizio,  mentre l’ UE non sta facendo nulla per aiutare  l’Italia .  C'è un terremoto istituzionale e politico che rischia di avere un impatto devastante su tutta l'Europa attraverso l'Italia. Noi siamo come al solito lasciati soli. Stiamo gestendo l'emergenza umanitaria  solo con l’aiuto della protezione civile. E' indispensabile l'intervento dell'Europa.  Sono tantissimi gli immigrati ….  il loro numero aumenta con il passare delle ore, dei giorni e dei mesi ,  con  barconi fatiscenti  giunti dalla Tunisia che hanno ormai invaso il porto di Lampedusa. Le carrette, vecchi motopesca lunghi circa 15 metri, sono distribuite tra il molo Favaloro e l’altra banchina dello scalo dove si trova la sede della Guardia Costiera  dove ormai i pescherecci della flotta dell’isola non riescono più ad ormeggiare. Secondo il ministro Maroni che , pur chiedendo   con insistenza  l'intervento dell'Unione Europea, sostiene che non  c’è nessuna emergenza immigrati  anche ora sapendo che sono previsti   200mila  immigrati . Le   carenze d’organico  della Polizia di Stato e delle Forze dell’Ordine,  Carabinieri, Polizia Municipale e Guardia di Finanza,  si rilevano sul personale che riesce  con enorme sforzo a garantire la sicurezza nella nostra vita quotidiana e nelle funzioni dello Stato, sia  nell’ambito amministrativo che della Giustizia. Non solo, le pratiche di loro competenza si sono estese, oltre al controllo del territorio, nella prevenzione ed indagine sui reati contro  le persone e il patrimonio fino al classico rilascio delle licenze, porto d’armi ed altro e   di tutto  ciò  che riguarda l’immigrazione dai permessi di soggiorno, ai ricongiungimenti, alle conflittualità  familiare esterne e  interne  di queste comunità, fenomeno che prima degli anni 80 riguardava unicamente migrazioni nazionali a bassa criticità, mentre dalla fine degli anni 80 in poi si è estesa a provenienze europee ed extraeuropee. Quando anche una sola di queste Forze dell’ordine  è inadeguata, l’azione degli altri non è più di supporto e di vantaggio, ma si riduce a semplice supplenza ed il risultato può anche non essere ottimale. L'Italia è dunque ,diventata, un paese d immigrazione  ,  ma non ha  un proprio modello di politica migratoria  perché si è adeguata a quello europeo nonostante la conformazione della penisola e il fatto che fosse un fenomeno nuovo  servirebbero  per il nostro territorio  misure speciali e specifiche. La classe dirigente ha dimostrato una certa continuità in mancanza di un progetto politico ben preciso, nell'incapacità di attuare una legislazione relativa ad un fenomeno di carattere nazionale e nell'arretratezza sul piano del rispetto dei diritti civili. Anche se il Ministro Maroni è  al corrente della mancanza di agenti; è necessario che, al più presto , dalle parole il Governo passi ai fatti. Si rifacciano i concorsi pubblici aperti  e trasparenti di Agente di PS, che dal 1996 le varie finanziare hanno  bloccato, a favore unicamente di assunzioni di ex militari. Si ricoprano i ruoli di legge vacanti in coerenza con i proclami politici ,soprattutto, in tutto il territorio italiano, senza discriminazioni  affinché non si rafforzino solo quei commissariati lombardi e veneti per assecondare la politica affine .  Sono  convinto  che la Sicurezza non si faccia risparmiando , ma destinando risorse a mezzi e uomini che si prodigano ogni giorno per la nostra Sicurezza. Questa  situazione si  è  creata per l’effetto dei tagli operati sulla sicurezza  per una politica sbagliata di distribuzione delle risorse . Mi auguro che il Governo inverta  la rotta sulla sicurezza ritenendola un investimento e non un costo che, in quanto tale, va tagliato alla pari degli sprechi che, invece, resistono per il piacere di una casta irriducibile.
Francesco TIANI

martedì 8 marzo 2011

Io mi chiedo cosa si deve festeggiare oggi .




In questi ultimi anni abbiamo assistito ed ancora assistiamo ad un processo di liberazione della donna dalla sua antica schiavitù  e  dalla sottomissione all’uomo.La  donna ha preso e prende più coscienza di sé e delle sue capacità e rifiuta una vita che fino a qualche anno fa accettava con naturalezza “angolo  del focolare” ora “la regina della famiglia” .Con il passar del tempo  ha occupato disinvoltamente  i posti di lavoro  che  un tempo erano riservati esclusivamente agli uomini . La figura della donna, che dedicava  tutto il suo tempo  alla famiglia e  viveva in funzione di essa sta scomparendo     e  al suo posto si configura un nuovo tipo di donna   , che ha una vita lavorativa e   interessi  sociali, che le danno sempre più consapevolezza delle sue forze , del suo valore e delle sue capacità intellettive . Oggi la donna non si sente più solo  consumatrice , ma sa bene di essere entrata nel processo produttivo , è consapevole di partecipare attivamente alla produzione di beni e servizi e pertanto ha coscienza della propria indipendenza.Chissà quante persone  sono al corrente di quello che accadde nel lontano 1908, quando a New York, 129 operaie dell'industria tessile Cotton scioperarono per protestare contro le terribili condizioni in cui erano costrette a lavorare. Lo sciopero si protrasse per alcuni giorni finché, l'8 marzo , il proprietario Mr. Johnson bloccò tutte le porte della fabbrica per impedire alle operaie di uscire dallo stabilimento.
Ci fu un incendio doloso e le 129 operaie prigioniere all'interno dello stabilimento morirono arse dalle fiamme. Da allora, l'8 marzo è stata proposta come giornata di lotta internazionale, a favore delle donne. La commemorazione, tutta americana, delle vittime è stata poi accolta in tutto il mondo come la giornata simbolo del riscatto femminile. L’iniziativa di celebrare la giornata internazionale della donna fu presa per la prima volta nel 1910 da Clara Zetkin a Copenaghen durante la Conferenza internazionale delle donne socialiste e la scelta di utilizzare la mimosa come simbolo della festa della donna risale al 1946, quando le organizzatrici delle celebrazioni romane cercavano un fiore di stagione a buon prezzo.  Oggi   questa festa è  diventata ormai una ricorrenza   puramente consumistica dando importanza   ai numerosissimi elenchi di locali e ristoranti nei quali si festeggia questo giorno  con cene, banchetti, spogliarelli e così via, ma  in pochi conoscono   il fatto storico  di quel doloroso evento. Attualmente , nella società del ventunesimo secolo , quanto appena detto può sembrare scontato , eppure basterebbe tornare indietro nel tempo di pochi decenni per rendersi conto che l’attuale posizione raggiunta dalle donne è il frutto di anni e anni di durissime lotte contro una società estremamente maschilista , che voleva le fanciulle asservite tra le pareti domestiche , letteralmente schiave di ogni volere del marito , spesso vittime silenziose senza alcuno diritto , né dignità.In Italia   nel periodo fascista il ruolo della donna era considerato inferiore a quello dell’uomo , a tal proposito furono emanate delle leggi  sconcertanti ,  che stabilivano  che il salario delle donne doveva essere dimezzato rispetto a quello degli uomini fino a giungere, progressivamente, la totale privazione del diritto al lavoro  con conseguente allontanamento delle stesse dai posti.In questo stesso periodo  fu   scoraggiata  la frequenza scolastica , poiché vennero raddoppiate le tasse per le studentesse , favorendo così  le fanciulle provenienti da famiglie agiate . Una tappa importante da ricordare è  la conquista del diritto al voto , che risale al 1946 , malgrado l’acerrima opposizione dei socialisti , che temevano , proprio per il contributo elettorale femminile, il trionfo dei cattolici , come poi effettivamente successe .Oggi  che , finalmente , la parità è una realtà concreta  ,  mi chiedo cosa ci sia da festeggiare  oggi ,quando  tutti i  giorni ci sono donne, ragazze ,bambine  violentate,  infibulate, perseguitate , uccise  a casa, per strada  e in  ufficio, da padri, mariti, amanti, estranei , amici ,colleghi , datori di lavoro che considerano  la donna come  “oggetto” da  possedere ad ogni costo. 
Donne  che devono abbandonare il loro sogni di maternità per  paura di venir licenziate per mancanza di asili nido sul posto di lavoro. Donne che   svolgono umili lavori  per sfamare  la famiglia di 4 persone con 100 euro la settimana, facendo  i conti  che non tornano per pagare   bollette e   dare da mangiare .Madri  che seguono i figli a scuola, si svegliano presto la mattina  cucinano, fanno la spesa, riordinano casa, protestano, scrivono pensieri su facebook per sentirsi meno sole, per sentirsi più capite.

FRANCESCO TIANI

mercoledì 2 marzo 2011

Vittime del dovere.





Oggi ricordiamo il sacrificio del  Sovrintendente della Polizia Ferroviaria, Emanuele Petri,  ucciso il 2 marzo 2003 in un conflitto a fuoco con due terroristi  e  l'arresto della Nadia Desdemona Lioce che  hanno permesso agli investigatori di ricostruire la storia delle nuove Brigate Rosse e di individuare i responsabili dell'assassinio dei consulenti del Ministero del Lavoro Massimo D'Antona e Marco Biagi (assassinati rispettivamente nel 1999 e nel 2002). C'è il rischio di una vera e propria emergenza umanitaria, con l'arrivo di centinaia di persone sulle coste italiane in fuga dai paesi in guerra perché la crisi di quei paesi sta provocando una fuga di massa verso l'Italia  . La fuga dei cittadini dalla Tunisia  alza l'allarme terrorismo per il pericolo di infiltrazioni tra i migranti perché  tra  i cittadini in cerca di protezione ci sono criminali evasi dalle carceri e personaggi infiltrati da organizzazioni terroristiche come Al Qaeda nel Maghreb Islam l’Italia sono mesi che  aspettano  una risposta immediata dall'U E  alla nuova situazione creatasi, alla quale l'Italia non può far fronte da sola e che è interesse dell'intera Europa gestire in maniera efficace e tempestiva .
 Onore e gloria  uomini delle forze dell’ordine  uomini e donne, mariti e mogli, padri e madri, figli che vestono la divisa da poliziotti e che credono nel rispetto delle leggi. … che spesso  non hanno orari, né una vita propria; dove la famiglia è formata dai  i colleghi e la casa è  la strada ... per garantire   sicurezza del popolo italiano.
 Quanti poliziotti deceduti, oltre al cordoglio c’è tanta   rabbia… la rabbia di dover nuovamente assistere ad episodi così gravi in un territorio martoriato dalla criminalità ,ma anche la rabbia di non vedere camminare  di pari passo la sicurezza e la giustizia. è  illogico impostare una strategia sulla sicurezza senza tenere conto delle carenze organiche e strutturali di tribunali e procure. …. tanto sacrificio e vite in gioco per assicurare alla giustizia dei delinquenti e poi si rischia di vederli fuori per intercorsi tempi di custodia cautelare, cavilli burocratici e, peggio ancora, per l’indulto. Così non si può andare avanti. Quei poliziotti deceduti   hanno dato la loro vita per assicurare alla giustizia dei malviventi. La Giustizia  ha il dovere morale e sociale di garantire la giusta pena in tempi celeri a chi delinque.

Francesco TIANI