venerdì 8 ottobre 2010

IL SINDACATO UN SOGNO........................





Perché si entra in Polizia?
Si sceglie di diventare poliziotto perché l’istinto di difendere i deboli fa parte del dna; perché soccorrere chi è in pericolo è più forte di ogni altra remora; perché si ha uno spiccato senso della giustizia; perché si è convinti che la cornice di sicurezza favorisca il progresso della comunità.

Sono tante le motivazioni profonde che incidono sulla scelta di intraprendere questo rischioso mestiere. E nessuna di esse sfiora la più cinica delle spiegazioni  che poi si sostanzia nell’idea - falsa - di avere una occupazione retribuita, ossia il classico posto di lavoro che permette di vivere. Barano coloro che evocano questa genesi motivazionale, confondono le carte perché non vogliono riconoscere, spesso a loro stessi, gli alti e valori che ispirano una scelta così complessa.

Come infatti spiegare altrimenti le tante rinunce e i svariati sacrifici, le carenze logistiche legate ai permanenti stati di crisi finanziaria, il senso di solitudine paradossalmente associato ad un mestiere che si svolge tra la gente e per la gente, con l’ombra nera della morte violenta in agguato che flagella i sogni più agitati e pompa nelle vene adrenalina nociva?

La verità è che un poliziotto resta tale per sempre, perché si sente così fin dal profondo della coscienza.

Ecco perché non ho difficoltà ad affermare che dal giorno dell’assunzione ad oggi, avverto immutato lo stesso senso di umile orgogliosa appartenenza. Nel corso della mia pluriennale attività, ho sempre creduto negli insegnamenti dei colleghi più anziani e questo spirito di corpo, questa unione finalizzata a promuovere sicurezza e quindi benessere, ha mantenuto costante la motivazione di fondo.

E provo anche un moto di rabbia perché vorrei fare di più per la comunità. Infatti la sera, di rientro dall'Ufficio, avverto un senso di impalpabile insoddisfazione poiché nonostante l’impegno quotidiano, mi rendo conto di stare sulla linea del fronte, dove si avverte un acuto senso di frustrazione per i limiti insormontabili che si frappongono alla realizzazione di un progetto e dove la buona volontà e l’ingegno creativo a volte non bastano. 

Ed è così ogni giorno, ogni santo giorno.

L’ho consapevolizzato io e lo hanno compreso gli inseparabili colleghi, veterani di tante pagine amare, disincantati certo ma mai afflitti da un senso di ineluttabile sconfitta. Combattenti, con una metaforica lampadina di riserva in tasca, pronta ad illuminare i recessi più bui della caverna di Platone e poter distinguere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, il torto dalla ragione. Chi non è “sbirro” ha difficoltà a comprendere questo passaggio mentale che può sembrare utopistico, ma che rappresenta la roccia fondante di uomini e donne con le iniziali maiuscole.

Purtroppo, non da oggi, i poliziotti vivono una profonda lacerazione perché nonostante siano capaci di comprendere le sfaccettature di una realtà complessa, vengono spesso agitati da un forte vento di incomprensione generale.  Le pietre, le spranghe di ferro, gli insulti  di essere servi dello Stato, trafiggono l’anima prima ancora che la carne. E spesso deflagrano con bombe giudiziarie che distruggono immeritatamente intere esistenze votate a proteggere la sicurezza interna.

Queste sono le ragioni profonde del malcontento generale dell’intera categoria.

Ma non bastano queste difficoltà per disaffezionarsi alla onorevole uniforme. Infatti, il lavoro non deve essere inteso nella sua accezione giuridica ossia come scambio sinallagmatico di prestazione d’opera cui corrisponde l’obbligo retributivo. Il lavoro è il primo veicolo di auto-realizzazione e di integrazione sociale; è nel lavoro che le persone sperimentano la giustizia o l’ingiustizia, il rispetto o il disonore.

Allora gettare la spugna significherebbe che gli ideali non sono poi così forti, significherebbe ammettere che i valori si incrinano di fronte alle inevitabili salite della vita. Significherebbe generalizzare pregiudizi che invece sono di pochi, perché la società civile ha fiducia nelle istituzioni, perché gli occhi grati di una persona indifesa che si sente finalmente protetta non ha prezzo, perché la parte vitale del Paese è con l’uniforme blu e azzurra della Polizia di Stato.

Tanti anni trascorsi in Polizia hanno favorito una crescita scandita da soddisfazioni acute e delusioni acide, e anche da quel senso di temporanea resa di fronte alle tragedie umane di cui sono stato testimone negli innumerevoli interventi operativi. Ho vissuto accanto al pianto inconsolabile di figli per i genitori morti e di genitori straziati per i figli morti, ho percepito la solitudine di fondo di persone che chiamano il 113 solo per sentire una parola amica nel deserto affollato in cui viviamo. Rivedo le migliaia di volti che sorridono e strappano un sorriso, bambini che talvolta, spinti dalla insaziabile curiosità, chiedono se sono veri gli inseguimenti spericolati che si vedono nei film.
 
Ma ripenso anche agli occhi vitrei, spenti per sempre, dei colleghi uccisi per mano violenta: concludono la loro esistenza su un tratto di strada periferico. Poliziotti con un forte senso di responsabilità nei riguardi del servizio e dello Stato, inflessibili custodi della legge anche a costo di sacrificare il bene supremo.

Allora questo scenario si ricongiunge in un'unica spiegazione che ha tante sfaccettature: l’amore per la verità, la voglia di mettere a tacere il grido del sangue dei colleghi morti per mano violenta, la voglia di favorire il riscatto di un intero Paese, la voglia di leggere negli occhi della gente la gratitudine per il lavoro ben fatto.

In questo percorso, umano e professionale, un punto frattura si colloca nel 1993 con gli attentati di Roma, Milano e Firenze. Questi attentati di matrice mafiosa riportarono in Italia un clima che si pensava appartenere al passato. E ciò accadeva proprio mentre le indagini di Mani Pulite, esplose nel 1992, avevano svelato la diffusa corruzione del potere politico.

La concentrazione ravvicinata di questi eventi, guarda caso proprio qualche anno dopo il crollo del muro di Berlino, non appariva casuale e non rappresentava soltanto la drammatica fine di una fase storica: era legittimo pensare che quello scenario rosso sangue fosse un segnale della ricerca da parte della mafia di un nuovo equilibrio con il potere politico.

Purtroppo, sembra che da allora non siano stati fatti passi in avanti migliorativi. Infatti, provo una certa amarezza nella constatazione, ormai quotidiana, di quanto sta accadendo per la giustizia, e avverto la netta sensazione che si stia affermando un senso di nichilismo privo di valori collettivi condivisi e produttivo di una manipolazione cinica delle regole. Questo decadimento vale in via generale: nei rapporti tra politica e magistratura, nelle relazioni tra potere esecutivo e Parlamento, tra governo e Presidenza della Repubblica e organi di garanzia. A mio avviso, l'intero sistema istituzionale, è sottoposto ad un'azione di "destrutturazione".

E in questa opera distruttiva vengono umiliati i valori che le istituzioni rappresentano.

L’Italia è in piena crisi. In una democrazia dove i governi durano poco e cambiano in continuazione è difficile che essi  si rendano conto di ciò che fanno o non fanno e di cosa abbia bisogno il popolo.  L’ instabilità è un incentivo all’opacità di chi è invece eletto per tracciare una rotta sicura che ci porti lontano dalle secche della crisi economica. Purtroppo, la scarsa sensibilità palesata dalla classe politica ai problemi della gente comune, rappresenta un grosso handicap per la democrazia: dovrebbe instaurarsi la cultura della rendicontazione puntuale e trasparente. Solo così sarebbe   possibile stabilire “chi è responsabile di cosa” poiché in una democrazia parlamentare non dovrebbero esserci decisioni sottratte a verifica. 

Anche perché queste decisioni si riflettono sul futuro del Paese e sul destino dei lavoratori. Sono trascorsi quarant’anni dal 20 maggio del 1970 quando venne approvato  lo Statuto dei lavoratori. Tale legge costituisce ancora oggi il pilastro dei diritti e delle libertà dei lavoratori e dei sindacati. Essa è lo strumento che rende cogente i principi della Costituzione sulla tematica del lavoro e della sua rappresentanza sindacale.

In questo humus storico, arricchito dagli insegnamenti paterni consolidati da esempi concreti, ho deciso di seguire  i miei ideali,  diventando  sindacalista convinto nel propugnare e rivendicare il principio costituzionale per il quale l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

Tale principio postula che i lavoratori siano alla base delle strutture economiche, sociali, e che gli interessi dei lavoratori debbano essere considerati prevalenti nei confronti di altre istanze configgenti. Ciò significa che chi attenta al lavoro e alla dignità dei lavoratori, attenta alle basi stesse dell’ordinamento democratico.

Purtroppo, questi principi abbelliscono una casa disadorna, come una orchestra sinfonica che ai suoni disarticolati preparatori dei singoli strumenti musicali non fa seguire mai il concerto armonioso. E questo perché manca la volontà politica di attuare la Costituzione in modo conseguente.

Questa volontà attuativa è nei lavoratori, nel sindacato. Lottando per gli interessi dei lavoratori, il sindacato lotta per creare prospettive di rinnovamento e di progresso democratico del Paese. La lotta rivendicativa ha il suo punto di fuoco nelle piccole e medie imprese dove passa la linea della battaglia immediata per la ripartizione del reddito. Giusto. Ma dobbiamo riconoscere che l'azione salariale da sola non è in grado di rompere o valicare le strutture esistenti, che reagiscono e si irrigidiscono chiamando in loro soccorso tutte le forze politiche e sociali.

Noi dobbiamo lottare anche per riformare queste strutture, attraverso le nostre rivendicazioni qualitative e quantitative.

E per questo fine non possiamo rinunciare, sia pure nel rispetto della nostra  autonomia, a conseguire la convergenza di tutte le forze sociali siano esse al governo o all’opposizione.

Riforme, riformismo, riformisti. Indubbiamente mi considero un riformista, e propugno una trasformazione graduale, democratica, della comunità attuale verso  una società più libera e più giusta. Credo, infatti, nei valori permanenti di democrazia e di libertà che devono accompagnare il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Cerco di richiamarmi all'insegnamento dei padri del riformismo: uomini onesti, di fede, ma anche uomini determinati nelle lotte e intransigenti nei principi.

E credo nella autonoma funzione del sindacato in qualsiasi tipo di società civile, per il suo compito irrinunciabile di impulso,  verifica, rappresentanza permanente degli interessi specifici dei lavoratori.

Come credo nell'esigenza della unità sindacale per realizzare un progetto di rinnovamento sindacale condiviso e rendere le singole strutture più adatte alle esigenze dei nostri tempi.

Oggi, molti ex sindacalisti siedono in parlamento perché candidati dai partiti di riferimento. Si potrebbe pensare che ciò sia connesso ai successi conseguiti nella loro opera svolta in favore dei lavoratori. Ma, considerando i risultati raggiunti, non sembra che questa deduzione sia fondata. La classe operaia ed i ceti impiegatizi hanno visto scendere il livello dei propri salari costantemente dagli anni 90, hanno visto sbriciolarsi il potere di acquisto e ridimensionare il potere contrattuale di fronte alle imprese specie quelle multinazionali.

In questa fase recessiva, i lavoratori hanno perso tutte le certezze che avevano conquistato a costo di dure lotte negli anni settanta. Le piccole e medie imprese a loro volta hanno subito tutti i processi di trasformazione e molti imprenditori hanno deciso di delocalizzare gli stabilimenti produttivi in altri paesi. Si sono persi centinaia di migliaia di posti di lavoro nei settori più esposti dell’industria manifatturiera che era un vanto dell’Italia.

Di conseguenza è aumentato il lavoro precario senza garanzie e sussistono soltanto le grandi sacche di privilegi quasi sempre favorite dal clientelismo generalizzato.

Questa situazione chiama alle loro responsabilità i sindacati e gli ex sindacalisti che pur occupando posizioni di potere non riescono a far uscire L’Italia dalla crisi.

Ma non bisogna demordere. La storia dell’Italia e una continua via crucis. E lo spirito degli italiani è forgiato da secoli di duri sacrifici. E noi italiani occupiamo nel mondo un ruolo speciale, non soltanto per la millenaria tradizione di Roma caput mundi, ma per la straordinaria capacità genetica di rimontare le sconfitte.

Dobbiamo recuperare l’unità, la condivisione degli obiettivi e degli sforzi comuni. E in questo scenario, la polizia può e deve svolgere il suo ruolo fondamentale di sostenere le istituzioni democratiche e di favorire il progresso. E il sindacato può e deve affiancare questo progetto perché la crescita della legalità affranca la gente dal bisogno e la toglie dalle grinfie della criminalità.

In questo grande sogno, risiede la mia realtà.

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